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Author: Sorellanongemella

Lamento di una giovane disoccupata che sembra occupata

Da un mese ho compiuto 34 anni, sembrano tanti ma dicono li porti bene ed io voglio crederci.

Da piccola, quando pensavo ai miei 30 anni, mi immaginavo con un lavoro e forse una famiglia (ahimè mettevo già il lavoro prima di tutto) e a chi mi chiedeva: cosa vuoi fare da grande? Superata la fase del “voglio fare la ballerina”, ero già pronta con tutù e scarpette a mezza punta, rispondevo “voglio fare la scrittrice”. A quel tempo volevo solo scrivere, trasmettere, raccontare, descrivere, non mi importava di cosa. Quando alla fine degli anni 90, dovetti scegliere l’Università, non ebbi dubbi e mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia, consapevole del fatto che sarebbe stato difficile trovare lavoro e ad altri bei discorsi da terrorismo psicologico.

Oggi sono laureata da 6 anni e mi ritrovo ad essere una disoccupata che sembra occupata.

Alla domanda: che lavoro fai? Da un pezzo non rispondo più “la scrittrice”, ho abbandonato l’idea i primi anni di Università ma con fierezza ed imbarazzo dico: la progettista culturale, figura mitologica fatta per metà di Business Plan e metà di belleideesenzafinanziamenti. Dopo cinque anni di onorato lavoro però, inizio a chiedermi se ne vale realmente la pena. Si può definire vero lavoro quello che non ti permette d’essere economicamente indipendente, quello che, nonostante i mille sforzi e sacrifici, ti lascia a casa sotto il tetto di mamma e papà anche quando hai l’età giusta per andar via. Non crediate che in questi anni non abbia cercato altro, qualcosa di più “concreto”, come dicono tanti (come se la cultura non lo fosse), qualcosa di meno” choosy”. Negli anni mi sono proposta come commessa, segretaria ma il mio CV mi ha tradito, “troppo titolato” – mi hanno detto – per piegare maglie e rispondere al telefono.

Dopo aver capito che la mia vita non sarebbe stata tra gli scaffali di un negozio o dietro una scrivania, ho pensato di titolare ulteriormente quel CV già “troppo titolato”. Mi sono così imbattuta in master di facciata e  inutili o master interessanti ma assolutamente inaccessibili per chi, come me, non ha il supporto economico necessario. Volutamente non apro il discorso “voglio fare l’insegnante”, perché in quel caso il caos regnava, regna e regnerà sovrano: non ho frequentato la SISS (tolta l’anno in cui decisi di provarla) e quindi sono costretta nel limbo eterno della terza fascia con possibilità di chiamata alle armi dell’insegnamento pari allo 0; non ho partecipato al TFA, acronimo che ricorda più una malattia della pelle che un Tirocinio; non ho potuto provare il Concorsone per direttive ministeriali non ben definite.

“Cerco un centro di gravità permanente” – cantava Battiato – io per ora, cerco un Centro per l’impiego, che ormai di permanente ha ben poco

Cos’è l’estate per me…

L’estate è la “mia” stagione, non solo perché ci sono nata ma per il sole, il mare, la luce e il calore che fanno parte del mio DNA.

Nel mio armadio ho un numero imprecisato di estati catalogate, tutte raccontate giorno per giorno, incontro dopo incontro.

L’estate è il momento in cui, per l’unica volta nella mia vita, i miei genitori mi hanno dato una punizione, solo perché mi scoprirono che  passeggiavo con un ragazzo un po’ più grande di me. L’estate è anche quando, seduta su una panchina, ero convinta che tutto sarebbe rimasto uguale…io, i miei amici, il ragazzino di quel tempo. L’estate è il momento in cui, per la prima volta, ho scoperto il significato di una “dichiarazione d’amore”, concetto astratto fino a quel momento e che ho fatto fatica a far mio (solo negli anni ho imparato a cucirmi addosso la taglia ed i colori giusti). L’estate è anche la lunga serie di serate trascorse a parlare, seduta sul marciapiede della “villa” ( luogo che, solo oggi, capisco essere molto lontano dal concetto di vera villa ma che, a quel tempo, mi sembrava l’unico posto giusto dove stare). L’estate per me è anche l’ istante in cui, una delle tante terrazze sul mare è diventa speciale o quella in cui ho ricevuto una cartolina che ritraeva una valle della Val d’Aosta e riportava sul retro alcune frasi di Dylan Dog. L’estate per me è  la stagione in cui faccio i conti con alcune parti del mio corpo, troppo grandi o troppo piccole a seconda delle occasioni; è il momento delle passeggiate mangiando gelati che puntualmente, rispondendo ad una strana forza di gravità, cadono sui miei vestiti; è il momento in cui “ ho lasciato scappar via l’amore” per poi “incontrarlo dopo poche ore”. L’estate è il momento delle canzoni che non dimenticherò mai e che con gli anni, hanno sviluppato la stessa capacità di dare dipendenza di una vecchia canzone di Claudia Mori intitolata “Non succederà più” che può inchiodarti alla radio per ore.

L’estate per me è tanto altro…sono i mesi dove, a volte, sono cresciuta perdendo…

Quando si cresce?

Un bambino crede d’essere grande quando può guardare la tv fino a tardi o quando non deve più mettersi in punta di piedi per aprire la porta della sua camera. Un adolescente pensa d’essere grande quando compie 18 anni, può guidare la macchina e le ragazze possono mettere il rimmel senza nascondersi da mamma e papà. Gli adulti invece quando pensano d’essere grandi?

Forse gli adulti si ritengono grandi quando hanno un lavoro, diventano genitori o compare un 3 o un 4 come cifra iniziale dell’età.

Ho 33 anni, quasi 34 a dir la verità e non credo d’essere grande. Non ho un lavoro che mi permette d’essere autonoma, non sono mamma. Non sono grande perché, solo ora, piano e con non poco dolore, ho iniziato il mio processo di crescita. Metabolizzo le perdite accumulate, i punti di riferimento mutati, i nonni che non ci sono più ed i genitori che improvvisamente diventano come figli. Gli spazi fisici cambiano, le strade familiari diventano rare da percorrere ed i profumi che hanno educato il mio olfatto sono ormai rari ricordi. La geografia di vita che per anni ho creduto immutabile, improvvisamente sta cambiando, aldilà della mia volontà, aldilà di me.

La moda è razzista

Se siete alte più di 170 cm, portate la taglia 38/40 e quando camminate per strada vi riconoscete nei manichini esposti nelle vetrine delle boutique non andate oltre con la lettura. Le parole che seguiranno sono dedicate a chi, come me, ha dimensioni tascabili e ricorda un’anfora.

Mi rivolgo alle donne della strada (detta così non è bella ma avete capito cosa intendo), alle donne che devono lottare con la pancetta, la gamba non molto slanciata, i seni troppo grossi ed i fianchi “accoglienti”: quante volte vi siete sentite sconfitte dopo un pomeriggio di tentato shopping? Io tante…

Diciamoci la verità: la moda è razzista. Affermazione troppo forte ma è la prima che mi viene in mente ogni volta che vedo la mia immagine riflessa nelle vetrine dei negozi, dove ad indossare gli abiti, quelli che, secondo l’assurda idea dello stilista di turno, dovrebbero stare anche su di me, ci sono manichini che avrebbero fatto impallidire  Naomi Campbell ai tempi delle sfilate per Versace. Continuo a pensare che la moda sia razzista anche quando, in camerino, stretta in abitini “alla moda” (di chi?) mi ritrovo ad essere a metà strada tra un Chupa Chups, larga sopra e stretta sotto e l’omino della Michelin (facciamo a gara per numero di rotoli) . La moda è razzista anche quando, entrando in un negozio, scopro che quasi il 50% degli abiti che metterei sono destinati a watusse, mentre il restante 50%, sono pensati per Lolitone di 40 anni, bimbe (minkia) in pieno svilluppo ormonale o arrivano direttamente dal reparto baby.

Bene, visto che in molti hanno lanciato l’idea di far sfilare modelle più “rotonde” ed esporre manichini più tridimensionali perché non farli anche più bassi. Anch’io, per una volta, vorrei provare il brivido di riconoscermi nella “finta donna tutta d’un pezzo” aldilà del vetro, senza sentirmi esclusa dal “mondo fashion”. Posso provare a convincermi d’essere nata nell’epoca sbagliata e che negli anni 50’ sarei andata via come il pane ma oh… non sempre funziona, un aiuto dall’esterno ogni tanto ce vo’.

L’Italia è una Repubblica fondata sui blog

Il Movimento Cinque Stelle è nato da un blog e Grillo, unico e vero leader del Movimento (nonostante i grillini cerchino di convincerci e autoconvincersi del contrario) è uno dei più famosi e potenti blogger al mondo.

Claudio Messora (collaboratore de il Fatto quotidiano online) e Daniele Martinelli (nel 2009 cronista giudiziario per il blog di Antonio Di Pietro curato da Casaleggio e nel 2010 candidato alle regionali proprio per l’Idv) sono due blogger di successo scelti, sempre da Grillo, come coordinatori dei due gruppi di comunicazione per la Camera e il Senato.

Il Movimento Cinque Stelle, oggi, è in Parlamento e in Senato ed è uno dei partiti più importanti in Italia. La premessa fatta, unita all’ultimo dato, ci porta alla chiara e semplice conclusione che: l’Italia è una Repubblica fondata sui blog.

Negli ultimi anni avere uno spazio virtuale su cui poter scrivere i propri pensieri, senza molte censure, controlli e attraverso cui far passare delle informazioni, ha pian piano sostituito il confronto diretto, il faccia a faccia fatto attraverso la parola detta e reale. Sempre più spesso, il blog è diventato una sorta di Bibbia mediatica, da dove viene diffuso il Verbo ed ha sostituito i talk show televisivi politici (nelle stesse trasmissioni sono sempre più frequenti gli ospiti-blogger o notizie prese direttamente dai blog). Al blogger è stato conferito (da chi?) il ruolo di nuovo Dio.

Appare ormai chiaro che, la famosa gavetta, fatta all’interno delle piccole sedi di partito a “togliere la cera e mettere la cera” come ci insegna il buon e vecchio Karate Kid, armati di pazienza zen e tanta buona volontà e voglia di conoscenza è una modalità che non va più di moda. Oggi, nel manuale dei “giovani politici” la prima e fondamentale regola è: AVERE UN BLOG.

“Ma’ ndo vai se un blog non ce l’hai….”? Se non hai un blog di successo non puoi candidarti neanche a fare l’amministratore di condominio e a nulla importa se non hai competenze specifiche, il numero di “amici”, “follower” e “ seguitori vari” varranno molto di più di anni di esperienza sul campo. Sono pronta a ritrovarmi su YouTube, accanto ai tutorial di make up di Clio, quelli dedicati al “bravo politico” (alcuni neo eletti ne avrebbero tanto bisogno).

Alla fine di questa breve e caotica riflessione mi chiedo: ma anche Pertini e  Berlinguer oggi avrebbero avuto un blog?