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Category: Impara l’arte e mettila da parte

Pensavo fosse Mark Zuckerberg, invece era Matteo Achilli

Voglio fare con voi un gioco facile facile:

alzi la mano chi ha sentito parlare almeno una volta di Matteo Achilli.

Ok…adesso alzi la mano chi conosce, ha sentito parlare, usa o é iscritto alla piattaforma Egomnia.

Bene, le manine virtualmente alzate sono poche, soprattutto se pensiamo che il 6 Aprile, nei cinema italiani uscirà un film, prodotto dalla 01 Distribution (non una casa indipendente per intenderci) e diretto da Alessandro D’Alatri (non un regista impegnato, sempre per intenderci, ma pur sempre un regista conosciuto), proprio su Matteo Achilli, fondatore di Egomnia, startup – attenzione userò termini inglesi e fighi, come l’argomento richiede – che, stando a quanto scritto sui giornali e le riviste specializzate di settore, dovrebbe avere numeri così alti da far tremare la L e la I di LinkedIn, uno dei suoi diretti competitor.

Non voglio addentarmi nel magico e, ai più sconosciuto, mondo di Egomnia e, tanto meno, posso dire la mia su un film che ad oggi mostra solo il trailer, montato non a caso, in stile The Social Network.

Alziamo per un attimo i nostri occhietti nerd dalla tastiera, dai business model canvas e dalla cartina che segna sempre e comunque Palo Alto e guardiamoci drittidritti, trovando il coraggio di ammettere che Egomnia, così come molte stratup italiane blasonate, sponsorizzate, super citate, non sono startup di successo, o almeno non lo sono secondo i rigidi parametri, importanti da oltre oceano, richiesti e propinati rigorosamente in pillole di saggezza business, in lingua inglese.

Il mondo delle startup in Italia, da sempre rincorre teneramente il  modello americano alla Mark Zuckenberg, senza però aver bene inteso che qui non abbiamo business angel, venture capital o banche, dagli uffici posti in scatole di vetro, sempre pronti ad investire su un’idea (se fosse così, vado nella prima banca a caso e spaccio l’idea del mutuo su una casa, per una startup innovativa sul futuro immobiliare).

Costruire a tavolino lo startupper star, così come negli anni ’90 si lanciavano cantanti pop alla Backstreet Boys, fa male ad un vero e più proficuo tessuto di nostra innovazione, inoltre continua ad alimentare l’abitudine, tutta italiana, di travestirci da quelli che non siamo.

Fare quindi un film su una bella storia é auspicabile.

Fare un film che potrebbe lanciare un messaggio di speranza, per la serie “ragazzi non arrendetevi e portate avanti le vostre idee” é altrettanto auspicabile, anche se, da donna poeticamente romantica quale sono, il Prof Keating che fa salire sui banchi i suoi alluni nel film L’attimo fuggente é stato, é e sarà il miglior esempio per non arrendersi mai.

Fare un film impacchettandolo come l’unico modello di business vincente è sbagliato: per i ragazzi che vedranno il film; per i ragazzi che vorranno essere come Matteo Achilli; per l’onestà, fatta anche di sconfitte positive, che dovrebbe essere presente nel mondo del lavoro.

Le quattro cose (vere) che nessun Social Media Manager vi dirà

Quante volte vi siete ritrovati a leggere un articolo, seguire un corso o un webinar su “come essere un bravo social media manager”; “i cinque consigli per la programmazione di un buon piano editoriale”; “come ottenere successo sui social”.

Ogni volta, chi scrive, elenca delle massime di vita virtuali da leggere tutto di un fiato o da ascoltare con la stessa attenzione e meraviglia che potremmo dedicare a chi ha deciso di rivelarci il terzo segreto di Fatima.

La sensazione è sempre la stessa: da oggi non mi ferma più nessuno? #Socialnutetemo.

Immaginiamo file di clienti pronti a pendere dalle nostre labbra e dal nostro mouse; disposti a pagare il budget richiesto senza batter ciglio; pieni di belle e incoraggianti parole e soprattutto – finalmente! – riconoscenti per il nostro lavoro. Sì, lavoro!

Bene, usciamo dal Paese delle Meraviglie, salutiamo con la manina Alice, il Bianconiglio e risediamoci nel nostro studio davanti alla tastiera e al monitor. Mettiamoci comodi e facciamo partire la sigletta per la prima ed unica puntata de “Le quattro cose vere che nessun Social Media Manager dirà”:

1. IL SMM è uno e trino.

Ecco, toglietevi immediatamente quel sorriso dalla faccia, scendete dalla nuvoletta sulla quale siete pericolosamente saliti e prendete coscienza che, essere contemporaneamente social media manager,  content editor e grafici non fa di noi delle divinità, ma dei lavoratori non ben identificati nel fantastico mondo delle professioni.

2. Oltre i social c’è di più.

Diciamoci la verità, la realtà virtuale per noi è l’ultimo dei problemi, tutti i giorni dobbiamo improvvisarci psicologi, sociologi, filosofi, problem solving, fotografi (senza ph) e video-maker.

Quando il cliente chiama dobbiamo ascoltare tutte, ma proprio tutte, le sue ansie e le sue perplessità. Ci mettiamo comodi per prendere appunti, abbassiamo gli occhiali sul naso, guardiamo oltre le lenti e – tirando un respiro profondo – iniziamo a scavare negli abissi della nostra memoria per recuperare tutte le frasi che possano ricordare gli aforismi di Osho, i versi da Baci Perugina, le frasi di Oscar Wilde. Sappiamo anche che, quello stesso cliente, sta per chiederci – dopo essersi momentaneamente tranquillizzato – di realizzare per lui uno shooting “anche con il telefonino va bene…ma devono sembrare come fatte da un fotografo, che tu sai non posso permettermi” della festa di compleanno di sua figlia camuffata da evento per il lancio dei saldi di fine stagione.

 3. Ora et labora.

Mai regola fu più adatta – abbiamo scomodato i benedettini – per il lavoro del SMM.

Preghiamo e lavoriamo.

Alzi la mano chi, alla presentazione del preventivo si è sentito subito dire: ottimo! Dove posso versare la somma?

Ecco, nessuna mano all’orizzonte.

Il bravo SMM non sporca, non fa rumore e mangia poco o al massimo mangia a casa di mammà, perché il cliente, non solo ha contrattato il costo del  lavoro manco fosse in un bazar marocchino, ma ha anche preteso di iniziare il pagamento al raggiungimento del decimillesimo like sulla sua pagina, senza però aver speso un solo centesimo in sponsorizzazione perché: “oh già pago te figuriamoci se mi metto a dare soldi anche a quello” (Quello sta per Mr. Zuckerberg).

 4. L’Africa.

Ogni mattina un SMM si sveglia e sa che deve correre più veloce del cugino del potenziale cliente; del “ragazzo che fa le fotocopie che ogni tanto posta su Facebook” (anche lui si adatta a fare quello che può); del nativo digitale – questa vale solo se appartenete alla Generazione X come me – che usa emoji nei post come se non ci fosse un domani.

 

Sigla di chiusura della puntata. Pubblicità.

 

Bene cari lettori, queste sono le quattro cose che un Social Media Manager non vi dirà o almeno non lo farà apertamente.

Perché ho scelto di non fare l’insegnante.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché ho una Laurea in Lettere indirizzo Storico-Artistico, arrivo da un tempo giurassico.
In classe, oggi, sarei come John Travolta nelle GIF che andavano tanto di moda qualche mese fa: totalmente spaesata.
Non saprei gestire lavagne elettroniche, prove INVALSI, testi con solo cinquerighecentocaratteri, mappe concettuali, slide, mancanza del libro di antologia, poca lettura, molti riassunti.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché non lo sarei mai diventata: laureata troppo presto per essere contemporanea e troppo tardi per rientrare nei parametri di accesso a qualsiasi prova di abilitazione dal nome acronimo.
Prove che, lo confesso, forse non avrei mai superato perché sí…non riesco a ricordare la data precisa in cui é nato Tizio ed é morto Caio, non ricordo neanche la data precisa in cui é stato scritto un benedetto pamphlet, ma so “solo” perché é stato pubblicato e diffuso e a cosa poi ha portato. Non basta però per fare l’insegnante.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché, l’idea che il tempo possa passare solo per me, mi mette ansia: una classe di alunni dalle facce diverse ma sempre giovani.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché non basta conoscere una materia, bisogna anche saperla trasmette ed io non lo so fare.

Ho scelto di non fare l’insegnante e non sono per nulla pentita.

Ricominciamo da Matera

Da ieri a Sud c’è una capitale; non economica, politica ma una capitale della cultura.


Le parole Sud e Cultura insieme fanno quasi paura, sono un ossimoro. Sud e Cultura non vanno più a braccetto da molto tempo. Da decenni, il troppo Mediterraneo Sud, e’ stato relegato a contenitore di mafie, arretratezza, immigrazione, mancanze sociali ed economiche. Lontano dall’Europa attiva e sviluppata, vicino all’Africa che scappa e all’Oriente che esplode. Da secoli, la Magna Grecia, non è più grande e lo scrigno dei fasti passati, conserva solo gioielli sepolti sotto una coltre di polvere di cemento e consapevole dimenticanza.
Dalle 17 di ieri invece, la Cultura e’ tornata nella sua antica casa e se, per il resto d’Italia (forse) non significherà molto, per noi meridionali e’ il recupero del nostro sano DNA.


Ricominciamo da una regione soffocata dalle altre regioni che molti faticano a riconoscere sulla cartina. Ricominciamo da una città che, per lungo tempo e’ stata considerata una vergogna italiana: sporca, dimenticata, povera, bloccata in un tempo fuori dal tempo, privata del suo vero futuro. Ricominciamo da un territorio che, con umiltà e senza tanto clamore, ha saputo aspettare, con pazienza orientale, il momento per dimostrare che gli aridi sassi sanno raccontare e possono rappresentare una Cultura universale.


Ricominciamo da dove siamo partiti, perché forse, così, ci smarriamo meno

Rossetto e cioccolato

Lo ammetto, ho ceduto anch’io alle tentazioni della moda e da qualche mese sono passata dal “vadobenecontutto” gloss nature ad un più impegnativo rossetto rosso fuoco.

Nella scelta però, ho sottovalutato le conseguenze della moda.

Quando acquisti un rossetto rosso fuoco, non c’è il bugiardino del make up, che ti avvisa su cosa si deve o non deve fare; non c’è neanche una Clio a portata di mano che ti insegna i trucchi per i trucchi. Non c’è nulla di tutto ciò.

Quando acquisti un rossetto rosso fuoco, ti ritrovi sola davanti allo specchio ed è li che inizia la lotta: l’effetto Joker è sempre dietro l’angolo. Dimenticate le bocche perfettamente disegnate delle riviste di moda; Vanity Fair è un mondo fatto di labbra carnose e rosse al punto giusto, riservato a poche elette. La realtà, per noi povere mortali, prevede denti segnati di rosso e labbra a macchia di giaguaro.

Quando acquisti un rossetto rosso, pensi immediatamente: con questo lo conquisto. Mi presento con due labbra rosse così, ogni tanto faccio finta di mordicchiarmi il labbro inferiore e la serata è fatta.

Mai pensiero è stato più sbagliato: avete mai provato a baciare con un rossetto rosso? Se sull’uomo, le tracce del vostro rossetto, lo faranno apparire come un gran Don Giovanni  (non è un caso che ci sono pagine e pagine di libri e scene e scene di film che trattano l’argomento: uomo e macchie di rossetto) su di noi, quel rossetto, verrà spalmato su tutta la faccia, provocando l’effetto “ho sbattuto la faccia in un piatto di pasta al pomodoro”.

Quando acquisti un rossetto rosso, non tieni conto che, anche mangiare o bere diventa un’impresa difficile, subito si palesa il dilemma: mangio, rovino il rossetto, vado in bagno a ritoccarlo, rimangio, rovino il rossetto, ritorno in bagno a ritoccarlo e così per tutta la serata o dico che non ho fame e sono fantastica per tutta la sera?

Bene, quando sono arrivata a pormi questa domanda davanti ad una tazza di cioccolata calda, ho fatto la mia scelta: ho preferito la cioccolata che, diciamocelo, è anche più afrodisiaca del rossetto rosso