Dalla mia visita alla mostra su Frida Kahlo sono passati diversi giorni ma ho ancora negli occhi le immagini della sua vita dipinta e vissuta.
I quadri di Frida e le foto che la ritraggono sono come le scene di quei film che, una volta visti, restano per giorni e giorni in testa; che ti svegli al mattino ed hai ancora addosso le parole dei dialoghi, le note della colonna sonora, le espressioni dei protagonisti; ma la vita di Frida e il suo modo di raccontarla, esporla, renderla pubblica non sono finzione.
Non provavo una sensazione di stordimento per una mostra da molto tempo, ma la mia non è “sindrome di Stendhal” – guardo sempre con scetticismo chi davanti ad un’opera d’arte sviene, lo trovo inutilmente teatrale. Il mio stordimento per il mondo raccontato da Frida è dato dai colori messicani, dai dettagli inaspettati, dalla profondità degli occhi languidi del ritratto con scimmia o dalla elegante malinconia del suo primo autoritratto, fatto con amore per un amore. Il mio stordimento è nato dall’aver sentito vicina Frida, quasi compagna della mia visita alla sua mostra. Il mio stordimento è cresciuto con la sorpresa di percepire come vivi i suoi quadri, una sfumatura fondamentale che, sino a quel momento avevo ignorato. Le riproduzioni dei suoi dipinti e la cattiva abitudine contemporanea di trasformare in icona pop tutto quello che può far moda, può spostare somme di denaro e flussi di gente, annulla, purtroppo, il respiro che fa pulsare Frida e la sua arte.
Camminando tra i quadri ho sentito parlare Frida come donna e non come artista, femminista, rivoluzionaria.
Tutto si regge in equilibrio tra la vita fortemente voluta e la morte tanto combattuta. Tutto si divide tra la tradizione di una terra, la sua, carica di credenze, folklore, calore e sole e un’altra, estranea, moderna, grigia e a tratti ostile. Tutto si divide tra la rivoluzione e il mantenersi ben saldi alle origini.