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Tag Archives: scuola

Perché ho scelto di non fare l’insegnante.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché ho una Laurea in Lettere indirizzo Storico-Artistico, arrivo da un tempo giurassico.
In classe, oggi, sarei come John Travolta nelle GIF che andavano tanto di moda qualche mese fa: totalmente spaesata.
Non saprei gestire lavagne elettroniche, prove INVALSI, testi con solo cinquerighecentocaratteri, mappe concettuali, slide, mancanza del libro di antologia, poca lettura, molti riassunti.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché non lo sarei mai diventata: laureata troppo presto per essere contemporanea e troppo tardi per rientrare nei parametri di accesso a qualsiasi prova di abilitazione dal nome acronimo.
Prove che, lo confesso, forse non avrei mai superato perché sí…non riesco a ricordare la data precisa in cui é nato Tizio ed é morto Caio, non ricordo neanche la data precisa in cui é stato scritto un benedetto pamphlet, ma so “solo” perché é stato pubblicato e diffuso e a cosa poi ha portato. Non basta però per fare l’insegnante.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché, l’idea che il tempo possa passare solo per me, mi mette ansia: una classe di alunni dalle facce diverse ma sempre giovani.

Ho scelto di non fare l’insegnante perché non basta conoscere una materia, bisogna anche saperla trasmette ed io non lo so fare.

Ho scelto di non fare l’insegnante e non sono per nulla pentita.

Lamento di una giovane disoccupata che sembra occupata

Da un mese ho compiuto 34 anni, sembrano tanti ma dicono li porti bene ed io voglio crederci.

Da piccola, quando pensavo ai miei 30 anni, mi immaginavo con un lavoro e forse una famiglia (ahimè mettevo già il lavoro prima di tutto) e a chi mi chiedeva: cosa vuoi fare da grande? Superata la fase del “voglio fare la ballerina”, ero già pronta con tutù e scarpette a mezza punta, rispondevo “voglio fare la scrittrice”. A quel tempo volevo solo scrivere, trasmettere, raccontare, descrivere, non mi importava di cosa. Quando alla fine degli anni 90, dovetti scegliere l’Università, non ebbi dubbi e mi iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia, consapevole del fatto che sarebbe stato difficile trovare lavoro e ad altri bei discorsi da terrorismo psicologico.

Oggi sono laureata da 6 anni e mi ritrovo ad essere una disoccupata che sembra occupata.

Alla domanda: che lavoro fai? Da un pezzo non rispondo più “la scrittrice”, ho abbandonato l’idea i primi anni di Università ma con fierezza ed imbarazzo dico: la progettista culturale, figura mitologica fatta per metà di Business Plan e metà di belleideesenzafinanziamenti. Dopo cinque anni di onorato lavoro però, inizio a chiedermi se ne vale realmente la pena. Si può definire vero lavoro quello che non ti permette d’essere economicamente indipendente, quello che, nonostante i mille sforzi e sacrifici, ti lascia a casa sotto il tetto di mamma e papà anche quando hai l’età giusta per andar via. Non crediate che in questi anni non abbia cercato altro, qualcosa di più “concreto”, come dicono tanti (come se la cultura non lo fosse), qualcosa di meno” choosy”. Negli anni mi sono proposta come commessa, segretaria ma il mio CV mi ha tradito, “troppo titolato” – mi hanno detto – per piegare maglie e rispondere al telefono.

Dopo aver capito che la mia vita non sarebbe stata tra gli scaffali di un negozio o dietro una scrivania, ho pensato di titolare ulteriormente quel CV già “troppo titolato”. Mi sono così imbattuta in master di facciata e  inutili o master interessanti ma assolutamente inaccessibili per chi, come me, non ha il supporto economico necessario. Volutamente non apro il discorso “voglio fare l’insegnante”, perché in quel caso il caos regnava, regna e regnerà sovrano: non ho frequentato la SISS (tolta l’anno in cui decisi di provarla) e quindi sono costretta nel limbo eterno della terza fascia con possibilità di chiamata alle armi dell’insegnamento pari allo 0; non ho partecipato al TFA, acronimo che ricorda più una malattia della pelle che un Tirocinio; non ho potuto provare il Concorsone per direttive ministeriali non ben definite.

“Cerco un centro di gravità permanente” – cantava Battiato – io per ora, cerco un Centro per l’impiego, che ormai di permanente ha ben poco

Volevo fare la Madonna

La lenta digestione post pranzo di Natale, mi ha fatto tornare alla mente, le recite scolastiche natalizie. Dai 5 ai 10 anni, dalla seconda metà di novembre, prima di uscire di casa per andare a scuola, tutti i giorni mi guardavo allo specchio, sperando di trovare somiglianze con l’immagine diafana della Madonna ritratta sui santini.

A scuola osservavo le mie ipotetiche rivali facendo un’ideale classifica delle aspiranti Madonne; escluse le bimbe con i capelli più corti dei miei (da sempre la Madonna ha una lunga chioma), a preoccuparmi maggiormente erano le bambine dall’aspetto etereo, quelle che sembravano nate per “essere Madonna”.

La notte prima dell’assegnazioni del ruoli, mi addormentavo con il grande desiderio di svegliarmi il mattino seguente bionda e con gli occhi azzurri: miracolo che ovviamente non avveniva.

Avere la parte della Madonna, per me voleva dire tanto: significava essere, in modo discreto, la protagonista; avrei lasciato il segno senza proferire parola, solo con la mia presenza. Pensavo e penso ancora che, chi visita un presepe vivente, supera capre, mucche, improbabili centurioni, la galleria degli antichi mestieri (quasi tutti sconosciuti a Betlemme), solo per arrivare davanti alla capanna di Gesù Bambino, dove insieme a San Giuseppe muto, il bambinello muto, il bue e l’asinello muti c’è anche la Madonna muta ma bellissima.

A pochi giorni dalla recita, ogni anno, il mio sogno natalizio, veniva puntualmente deluso, quando, la maestra, scorrendo l’elenco dei nomi per il ruolo della Madonna, non pronunciava il mio. La parte tanto agognata veniva affidata a quella che per me era la bambina più anonima della scuola, che a suo favore, aveva solo degli insignificanti occhi celesti e comunissimi capelli biondi. Le maestre non hanno mai capito che se la scelta fosse ricaduta su di me, avrebbero avuto l’occasione di presentare ai genitori una Madonna alternativa, diversa dal solito canone di bellezza della donna angelicata, una Madonna dalla personalità forte e “al passo con i tempi”, una Madonna mediterranea e paradossalmente più vicina alla realtà. Invece si sono sempre accontentate di seguire un banale clichè.

A quel punto, prima che la maestra finisse di assegnare le parti, sapevo benissimo quale sarebbe stato il mio destino. Le parole pronunciate dall’ insegnante altro non erano che la conferma: angelo presentatore/narratore; avrei recitato per l’ennesima volta nei panni candidi e argentati di un angelo che racconta. Avrei dovuto narrare a tutti la storia di Gesù Bambino, presentando i personaggi e le atmosfera di quella notte (è nato di notte Gesù, vero?); sarei stata al centro dell’attenzione con la parola ed il gesto, non sarebbe bastata la mia sola presenza. A nulla valevano i tentativi di convincimento di mia madre, che con pazienza, cercava di spiegarmi che la parte assegnatami non era per tutti, a me non bastava…io volevo fare la Madonna.